martedì 7 maggio 2013

Proteine e geni... sempre insieme!

Le ricerche effettuate per comprendere in che modo il DNA controlli le attività cellulari presero avvio da
un’ipotesi elaborata per la prima volta nel 1908.




In quell’anno un medico inglese A. Garrod, presentò in una serie di conferenze alcune nuove teorie riguardanti certe malattie umane che egli definiva <<errori congeniti nel metabolismo>>.
A.Garrod(1857-1936)
Garrod ipotizzò che alcune malattie causate dall’incapacità fosse dovuta a carenze enzimatiche; in questa ipotesi, che anticipava i tempi quasi mezzo secolo,  era implicita l’idea che i geni influenzassero la produzione degli enzimi.
A metà del secolo scorso i biologi cominciarono a capire che tutte le attività biochimiche della cellula dipendevano da enzimi specifici.
In quegli stessi anni un genetista statunitense, G. Beadle che stava lavorando sui mutanti di Drosophila per il colore degli occhi, formulò l’ipotesi che i diversi colori degli occhi osservati in questo mutanti fossero il risultato della variazione di un unico enzima.
Nel 1941 Beadle, insieme al suo amico biochimico E.Tatum, proseguendo gli esperimenti con un altro organismo riuscì a dimostrare la relazione tra mutazioni e perdita di funzionalità di specifici enizimi.
Beadle e Tatum giunsero alla conclusione che a un particolare gene corrisponde un determinato enzima.
Un’ulteriore introduzione a quest’ipotesi fu introdotta quando si scoprì che alcuni geni possono codificare, cioè portare l’informazione genetica, per la sintesi non di catena polipeptidica o per un determinato RNA vennero chiamati geni strutturali per distinguerli dai geni che vengono perciò detti regolatori.
L. Pauling fu uno dei primi a cogliere le implicazioni del lavoro di Beadle e Tatum nel caso in cui un gene che subisce una mutazione determini il cambiamento o la perdita della funzionalità di un enzima o di una proteina.
Pauling pensava che le malattie umane che riguardano l’emoglobina possono essere ricondotte a una variazione, rispetto alla norma, della struttura proteica della molecola di emoglobina.
Pauling prelevò campioni di emoglobina da individui affetti da anemia falciforme e dunque omozigoti recessivi, da individui eterozigoti per l’allele dell’anemia e da individui omozigoti per l’alle normale. Oer cercare di individuare eventuali differenze in queste proteine si servì di una tecnica, detta elettroforesi, che permette di osservare il comportamento di molecole organiche disciolte in una soluzione e sottoposte all’azione di un debole campo elettrico.
Dai risultati si deduce che in una persona affetta da anemia falciforme sintetizza un tipo di emoglobina differente rispetto a auna persona sana. L’emoglobina normale ha maggiore carica negativa, per cui rimane più vicina al polo positivo rispetto all’emoglobina delle cellule falciformi. L’emoglobina presente in un individuo eterozigote mostra invece la curva con due picchi, corrispondenti all’emoglobina normale e a quella delle cellule falciformi: ciò dimostra che la presenza di entrambe le forme di emoglobina. Una persona eterozigote, che porta cioè sia una copia dell’allele per il carattere falciforme si una copia dell’allele per l’emoglobina; tuttavia, si formano abbastanza molecole normali per evitare che l’anemia si manifesti.

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